Mi chiamo Elena, ho 27 anni, sono dottoranda in scienze sociali in Germania, insegnante di Hatha Vinyasa Yoga nonché portatrice della Sindrome di Poland. Sono nata infatti con un´agenesia mammaria destra e un´ipotrofia del muscolo pettorale omolaterale destro. Dopo aver vissuto per 20 anni senza un seno, nel 2015 sono stata sottoposta a un primo intervento chirurgico in cui mi é stato impiantato un espansore mammario tramite la creazione di una tasca protesica al di sotto del muscolo grande pettorale. L’espansore é stato gonfiato un po´ alla volta per essere poi sostituito con una protesi durante un secondo intervento, un anno e mezzo dopo il primo. Chiaramente le operazioni hanno lasciato anche una bella cicatrice sotto la mia ascella destra. Infine, nel 2017, mi é stato ricostruito il capezzolo destro, per poter dare ai miei seni una parvenza di simmetria.


Ahimè sono venuta a conoscenza di AISP “troppo tardi” per poter godere del suo supporto durante gli anni della mia infanzia e adolescenza, che per me hanno rappresentato un periodo non privo di difficoltà soprattutto da un punto di vista psicologico. Tuttavia, ora che il processo per me si é concluso e che ho imparato a convivere con la mia particolarità fisica (non lo voglio più chiamare difetto o anomalia, parole che suonano cosi´ male!), mi sento pronta a raccontare la mia storia. Spero, attraverso di essa, di poter trasmettere la mia vicinanza e il mio supporto a qualche altro/a portatore/portatrice che ora sta affrontando ciò che anch’io ho vissuto, o che magari si sta ponendo la stessa domanda che mi sono posta io per tanti anni: Perché proprio io?


Sento che questo é il momento giusto per raccontare la mia storia poiché nel corso degli scorsi mesi ho avuto la possibilità di confrontarmi con essa sotto una luce diversa. Durante un ciclo di incontri di psicoterapia, nel raccontare gli eventi traumatici vissuti in contesto di ospedale mi sono ricordata soprattutto di un paio di esperienze. La prima a 14 anni, quando mi sono sentita una cavia di laboratorio: fotografata, osservata e umiliata da un gruppo di sei o sette tra medici e infermieri, troppo interessati al mio caso che ai loro occhi pareva così interessante per accorgersi di una ragazzina che stava piangendo e che voleva solo scappare via da li´. L’ultima esperienza, più recente, lo scorso anno in un ambulatorio di ginecologia in cui il personale medico, mancando totalmente di tatto, ha espresso invidia nei confronti di un seno rifatto – come se l’avessi voluto io! – facendo riemergere quel serbatoio di lacrime che credevo di aver pianto tutte quando ero più piccola. 


L’ultima rivelazione, in fondo quella che mi ha portato anche a intraprendere la terapia, si é manifestata durante una pratica yoga: l’invito ad aprire il torace al posta di richiudermi in me stessa mi ha colto impreparata. Lacrime hanno cominciate a scendere sul mio volto: le ho lasciate scorrere, perché significava che dovevano uscire, che qualcosa dentro di me chiedeva di emergere ed essere preso in considerazione.


Ma come sono arrivata fino qui? 


Da bambina ho giocato molti anni a pallavolo. I medici mi dicevano che così potevo rafforzare il mio arto destro; giocavo come laterale, quindi usavo il braccio destro per schiacciare. Tuttavia dovevo ricorrere sempre alla forza della schiena perché il braccio da solo non ce la faceva.Della mia adolescenza ricordo fortemente il mio desiderio di essere “normale”, i pianti con mia madre, il suo senso di colpa, gli stratagemmi che insieme abbiamo trovato per nascondere quello che per me era un difetto, qualcosa di brutto. Avevo scoperto come limitare i miei movimenti, chiudendo le spalle in avanti. Il peso di dover/voler nascondere quel “difetto” mi opprimeva a tal punto da pensare, per quanto sapevo fosse una fesseria: “preferirei essere senza una gamba, così da non doverlo per forza nascondere”. Al tempo stesso, per farmi stare meglio la mia famiglia continuava a ripetermi che avevo qualcosa di speciale, che mi rendeva unica.


Con il diventare donna e la presa di maggior consapevolezza ho conosciuto anche i benefici del condividere la differenza, il sentirsi diversi, il vedersi marcati da cicatrici. Prima della mia operazione condividevo con Laura il peso psicologico della malformazione in età dell’adolescenza. Nei mesi precedenti all’intervento ho trovato il coraggio di raccontare la mia storia alle mie amiche e ai miei amici più vicini: la paura di essere giudicata si é subito trasformata in un accogliente sentimento di comprensione. Con Giulia, infine, post-operazione ho imparato il significato di avere una cicatrice, ovvero ho conosciuto il bello di avere una storia da raccontare.


Ricordo fortemente il momento in cui a 20 anni ho sentito il desiderio di mettere da parte paura e traumi e di riprendere in mano la questione. Al tempo vivevo e studiavo a Trento ed ero vicepresidente di un’organizzazione che incitava i giovani alla leadership. In questo contesto ho sentito una forte carica di vivere la mia femminilità al 100%. Cosi´ ho fissato la prima visita in chirurgia plastica a Verona. Ancora non era chiaro se fossi o no affetta dalla sindrome (é stato scoperto solo durante l’operazione). 10 mesi dopo la prima visita sono stata operata, durante i giorni dei terribili naufragi in cui hanno perso la vita molti migranti nel Mediterraneo. Ricordo il dolore al risveglio, la solitudine in quel momento, i giorni in ospedale in cui parenti e amici sono venuti a trovarmi, la splendida visita a sorpresa di Arianna, Andreina e Lorenzo, lo scenario immaginato di essere in spiaggia, al caldo, in un ambiente confortevole, che mi aiutava a sentirmi meglio, la voglia di ritornare a Trento dove c’era chi mi aspettava e con cui sentivo di voler condividere ciò che stavo attraversando. Nonostante le punture di eparina che mi aspettavano una volta al giorno per due settimane e il drenaggio ancora attaccato, presi il treno e mi sentì cosi´ forte, cosi´ viva! Come al solito pero la mia voglia di strafare ha fatto si che il mio corpo, ancora molto debole, mi ricordasse che gli avrei dovuto dare piuttosto un po´ di tempo per riprendersi, facendomi salire la febbre e finendo per allungare il tempo di convalescenza necessario.

 
Crescendo ho scoperto il potere dell’arte come forma per raccontare e trasformare il dolore in qualcosa di bello: ho iniziato a disegnare il mio seno, la mia asimmetria, la mia cicatrice. Sotto i miei disegni scrivevo: l’insostenibile pesantezza dell´asimmetria e, riguardo alla mia cicatrice: “tra una stella e un graffio di tigre” (un´immagine che poi ho utilizzato spesso per cominciare a parlare della storia che quella cicatrice in realtà celava). Nei miei mesi a Berlino sono entrata in contatto con una fotografa che stava cercando modelle per foto di nudi: volevo sentire che sensazione provassi nello spogliarmi e al posto di vedermi nella mia diversità (o unicità, come suggeriva Drusilla Foer quest’anno a San Remo) soltanto di fonte allo specchio, rivedermi in una foto, immortalata in un’immagine che parlasse da sola. Nel corso degli anni ho approfondito la mia passione rispetto alle forme di rappresentazione del corpo nell’arte. Mi sono interessata di body positivity, di fat shaming, di fotografia delle cicatrici, ampliando cosi´ la mia sensibilità nei confronti di quelle forme del corpo che non rientrano nei canoni di normalità e di bellezza standardizzata. Ho scoperto anche l’arte del Kitsugi, ovvero l’arte di esaltare con l’oro le ferite. Si tratta di una tecnica giapponese, con cui appunto oggetti in ceramica rotti vengono riparati con la polvere d’oro che ne accentua la loro bellezza, rendendo la fragilità un punto di forza e perfezione. Una splendida metafora!


Al giorno d´oggi guardarmi allo specchio non mi causa più dolore. Ci sono volte in cui la sensazione che gli altri possano notare i miei seni differenti mi mette a disagio, altre in cui non mi importa, altre ancora in cui ne vado addirittura fiera perché so di essere più forte di eventuali commenti. Soprattutto d´estate, quando esco a correre indossando solo un top sportivo penso: “tanto io corro più veloce di qualsiasi sguardo; io sono libera!”


Ci sono ancora delle domande che mi pongo, come ad esempio: dovrò in un qualche momento sottopormi ad un altro intervento? cosa succederà durante un´eventuale gravidanza quando il mio copro si trasformerà? la differenza tra i miei seni sarà di nuovo fonte di disagio? come farò ad allattare quando (se) un giorno sarò mamma? Nonostante io non abbia delle riposte ora, so che aprirmi, condividere con le persone che amo e dare voce ai miei pensieri e alle mie preoccupazioni potrà aiutarmi ad affrontare eventuali difficoltà che incontrerò sul mio percorso. 
Per te che mi stai leggendo, ricorda: non sei solo/a! Non avere paura ad aprirti!